MAXXI 10-13 Maggio 2018

di Fabrizio Borelli

Partiture Umane – Straordinaria Tournée
MARIA ITALIA ZACHEO

Partiture Umane
Accettano le contraddizioni della vita – ricercatori d’anima – per approdare alla condizione armonica, dove il confine ingloba più che divide, comprende, più che distingue, definisce mondi, più che separa. Aspirano al riconoscimento delle molte identità. Costruiscono partiture complesse e virtuose, che a noi parlano di noi e degli altri: impasti sinfonici di corpo e di psiche, di musica e di danza, di prosa e di poesia, di luci e di ombre.
La storia che si racconta si intreccia con tutte le storie di confine, tra estraneità e intimità, tra individuo e comunità, tra regola e trasgressione.
E’ storia di tutti: volti, incontri, rappresentazioni. I temi della fragilità e della frangibilità umana affiorano prepotentemente nelle immagini di una straordinaria tournée, in una città – Roma – riscoperta, ripercorsa, rivissuta. L’esplorazione della frontiera tra normalità e diversità, espressa nella narrazione artistica, propone una meditazione profonda sull’identità e la dignità dei protagonisti. Donne e uomini del nostro tempo guardano, osservati; parlano i dialetti del mondo; ridono di sé e degli altri. Gli sguardi tradiscono l’incantesimo della follia, esplosa in loro anziché nascosta.
L’obiettivo sulla condizione del disagio mentale è puntato per catturarne l’umanità – dove smarrita la meta? quando l’abbandono? – e per trasmettere dell’umanità il senso; per trovare, nel labirinto del caos, la via possibile.
Le fotografie di Fabrizio Borelli sono un inno agli scartati. Emozionano per la tenerezza delle immagini e stupiscono per la naturalezza dei soggetti, che confermano la pazzia parte integrante dell’essere e del vivere. Colpiscono per la teatralità delle composizioni e per le ambientazioni originali. Traducono visitazioni urbane in tableaux vivants.
Recuperare l’anima liberandola e proiettandola – saggezza antica del ritrovare il senso di noi – è missione condotta con successo dall’artista, che segue e riprende l’insolita compagnia di attori, cogliendo sentimenti negli occhi, nelle posture, nelle movenze.
Questa partitura umana, di luci, di ombre, di corpi, è un viaggio della speranza nella città negata – siamo alla fine degli anni settanta, poco dopo la promulgazione della Legge Basaglia – propizio per una nuova appropriazione.
Le rappresentazioni si svolgono in luoghi topici della Capitale – il Tevere, Santa Maria Della Pietà, l’Argentina, Primavalle, il Giardino Zoologico, Il Mattatoio, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Santa Maria in Trastevere – e sono in scena gli oggetti-simbolo di una subita segregazione: lettini, numeri, apparecchiature, coperte, lenzuola, pagliericci.
Quasi cerimonie raccontano di sopravvissuti; traumi, frustrazioni, conflitti, disagi, emarginazioni confermano – nella tenacia della conoscenza, della denuncia, dell’evoluzione – l’affermazione della vita proprio nella follia, che se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda. (William Shakespeare, “La dodicesima notte”, 1599-1601)

Straordinaria Tournée
Il reportage fotografico del settembre–ottobre 1979 trasmette con efficacia l’intenzione di un progetto iniziale, articolato e lungimirante, cogliendo insieme il sentire intimo di quanti – organizzatori, collaboratori, amministratori, accompagnatori e, soprattutto, attori – lo hanno di fatto poi realizzato.
Il Laboratorio Spettacolo – UOMINI E RECINTI – è preannunciato nel documento programmatico VISITAZIONE URBANA – META-PROGETTO S.P.Q.R. ’79 (Armando Casalini, febbraio 1979) che prefigura azioni proprie di un processo destinato a continua evoluzione. Mandato della VISITAZIONE (fare visita), è conoscere, intervenire sull’ambiente, adottando criteri percettivi e simbolici nella rappresentazione dell’urbano. Obiettivo è conservare il territorio, per la trasmissione di testimonianze storiche vissute, con la partecipazione dell’individuo alle leggi di trasformazione insite nel concetto di Società rappresentativa. Sottintesa è una dichiarazione di diritti, contro le forme coercitive, le funzioni alienanti.
Il viaggio attuato comunica, nella messa in scena e nell’improvvisazione, una condizione privata quasi sconosciuta e il desiderio di relazione tra diversità. La manifestazione ripropone il tema del territorio comune, da percorrere e condividere nel solco di un confine superabile, proprio come espresso nel pensiero di un anonimo, ricoverato del Santa Maria della Pietà, che introduce il calendario delle visitazioni: Le reti del manicomio sono quelle che più risaltano agli occhi, ma cosa dire delle reti che tengono imprigionato l’uomo fuori del manicomio? A chi aspettiamo a romperle? Aspettiamo forse di non avere più la forza di farlo?
Andamento lento del corpo e della mente; incantata esplorazione tra presenze dimenticate, di luoghi, di genti, di suoni, di forme, di luci. Il racconto fotografico ha inizio. E’ un viaggio di inattesa malinconica armonia.
Dal fiume al mare, per ritornare a casa. A teatro, al cinema, tra monumenti e rovine, per ritornare a casa.
Al museo, tra forme contemporanee – arte tangibile? attraversabile? – in spazi chiusi, l’ arte è ricoverata, vicina e comprensibile. Questo viaggio è bellezza.
Nel cuore della città, nei quartieri del buon Dio, fuori porta, per ritornare a casa.
Libertà e costrizione confinano: donne e uomini si muovono verso la frontiera dei diritti, testano l’incontro. Nella ricerca dell’anima l’occhio segue, indaga, esamina; l’immagine raccoglie, restituisce. Questo viaggio è speranza.

MAXXI clip

Mostra

La legge 180/1978 è stata una straordinaria riforma, unica nel mondo. In quello stesso anno, nel pieno di una terribile crisi istituzionale e democratica determinata dal rapimento e uccisione di Aldo Moro, altre due leggi, la 194 sulla tutela della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza e la legge istitutiva del servizio sanitario nazionale, hanno riconosciuto nuovi spazi di autodeterminazione della persona e affermato pienamente la sua dignità. Si è fatta strada una nuova idea di salute, quale stato di benessere fisico, mentale e sociale, che progressivamente si è affermata come uno dei diritti che più caratterizza, nel nostro tempo, il rapporto tra libertà e dignità. Sono riforme frutto della mobilitazione sociale e culturale di quel tempo, la cui elaborazione aveva coinvolto medici, lavoratori, cittadini, intellettuali.
Come Municipio Roma II abbiamo voluto sostenere e organizzare il lavoro di Fabrizio Borelli Confine 1/ Storia di luci e di ombre perché testimonia, con la forza che solo l’arte può avere, uno di quei momenti di mobilitazione sociale e di impegno per la costruzione di una società più aperta. Nel farlo ci offre l’occasione per riflettere sulla salute mentale oggi e sugli spazi di autodeterminazione delle persone che come amministratori locali siamo chiamati a promuovere e tutelare.
È un’iniziativa che si muove nel solco di un impegno che il Municipio ha sviluppato da tempo, integrando la propria azione con la AslRoma1. Un’importante esperienza del nostro piano sociale è l’assistenza domiciliare per favorire il rientro o la permanenza della persona adulta con disagio mentale nel proprio contesto abitativo e sociale. Un progetto nato dalla collaborazione con le famiglie.
Sappiamo che la spinta innovatrice della riforma ha incontrato sulla sua strada grandi ostacoli. Le famiglie troppo spesso si sono sentite lasciate sole di fronte alla sofferenza mentale dei propri cari, a causa dei ritardi nella costruzione di servizi territoriali adeguati, nell’implementazione di percorsi di sostegno all’autonomia e al recupero e dei tagli al servizio sanitario nazionale e al welfare.
Ancora oggi sulla promozione della salute mentale nel nostro paese sono impegnati attivamente gruppi di operatori, associazioni di cittadini, utenti e familiari. Crediamo che dovremmo investire di più sulle indicazioni elaborate in quegli anni di riforme. Le immagini di Fabrizio Borelli ci offrono la possibilità di riscoprire le ragioni e le radici del lavoro di Franco Basaglia e dei suoi collaboratori, per non perdere il valore democratico e civile della sua lezione ed impegnarci a promuovere politiche adeguate.
FRANCESCA DEL BELLO Presidente del II Municipio
CECILIA D’ELIA Assessora alle Politiche Sociali

La follia e l’arte. Gli itinerari di Fabrizio Borelli

Le immagini di Fabrizio Borelli ritraggono un momento particolare della vita di Roma, della sua storia politica ed artistica. Era l’autunno del 1979, l’anno prima era stata approvata la legge Basaglia, la legge 180, che sanciva la fine dell’internamento coatto nei manicomi. Gli internati dell’Ospedale psichiatrico di S. Maria della Pietà potevano uscire, girare per la città. Era un momento di euforia e di entusiasmo, i recinti dell’internamento erano stati virtualmente abbattuti. Era la fine di un’epoca, di una storia iniziata vari secoli fa. Ma nello stesso tempo era anche un momento di inquietudine, di pena, di smarrimento. Dove si poteva andare? I confini da rigidi erano diventati porosi, attraversabili, dalle mura del manicomio si poteva uscire, ma la sera si rientrava, non c’erano altri posti dove andare. Certo, non si parlava più di matti, ma di malati, non si parlava più di internati, ma di ospiti. Questi ex matti internati diventati ormai malati ospiti dovevano comunque sempre uscire sotto vigilanza e la sera rientrare in Ospedale, ex manicomio, perché non c’era scelta.
L’obiettivo del fotografo riprende con molta sensibilità questi stati d’animo di gioia, di meraviglia, e insieme di turbamento, di inquietudine.
Il centro sociale Primavalle e all’Ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà animarono quell’autunno la manifestazione Uomini e recinti, un percorso immaginario della riabilitazione. L’idea era di organizzare delle performance in luoghi significativi della città, quali la Galleria nazionale d’arte moderna, l’Area archeologica di Largo Argentina, il Mattatoio, il giardino zoologico. Era il periodo delle performance, la parola d’ordine nell’arte o nelle rivolte studentesche del 1977 era «performare», e la comunicazione era intesa come azione comune. Tano D’Amico ha ben documentato con i suoi scatti la rivolta di quegli anni, i sentimenti, il vissuto dei protagonisti del movimento.
In quell’autunno del 1979 gli ospiti di S. Maria della Pietà portavano in giro per la città gli elementi emblematici del loro internamento passato, i letti di contenzione e le camicie di forza. Il pubblico guardava incuriosito, per la prima volta a contatto con un mondo in genere invisibile fuori, perché rinchiuso altrove. E gli ex matti, a loro volta, potevano osservare la Galleria d’arte moderna, il Mattatoio, lo zoo, strutture della città da cui finora erano stati tagliati fuori, esclusi. Fabrizio Borelli coglie perfettamente questo doppio sguardo, meravigliato e incredulo, questo passaggio dentro/fuori che si fa sempre più fluido. Bellissima l’espressione della donna che osserva incuriosita e perplessa una scultura della Galleria nazionale d’arte moderna, e che noi a nostra volta osserviamo, grazie all’occhio del fotografo. O la donna di Torre Argentina, che ferma in piedi ci guarda dritto negli occhi. O ancora gli uomini e le donne che allo zoo ci guardano da dietro le sbarre.
Ci sono anche momenti di festa, di riso, di gioia. Come la gita sul battello nel Tevere, dove si canta e si balla. Battello che riporta alla mente la stultifera navis del primo Rinascimento, strano battello ubriaco che filava lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi. Il famoso quadro di Hieronymus Bosch della fine del Quattrocento, La nave dei folli, appartiene a tutta questa flotta di sogno. Come scrive Michel Foucault, può darsi che queste navi di folli che hanno ossessionato l’immaginazione del tempo siano state delle navi di pellegrinaggio, degli esili rituali. L’acqua purifica, certo. E nel suo riso il folle ride in anticipo del riso della morte.
Può essere interessante ricordare qui la distinzione proposta da Foucault tra un’esperienza cosmica, tragica della follia, come è quella che traspare dalla Dulle Griet di Bruegel il vecchio, o dai quadri di Bosch, dal suo Trittico delle tentazioni di Lisbona, dove la tentazione, la fascinazione, è quella della follia, con la sua minaccia di invasione che ossessiona l’immaginazione dei pittori, e un’esperienza critica, ironica della follia, di distanza e controllo, come è quella del poema satirico didattico di Sebastian Brant, Das Narrenschiff, o dell’Elogio della follia di Erasmo. Da una parte il silenzio delle immagini, dall’altra il dominio del discorso, i temi letterari, filosofici, morali e ben presto medici della follia. Ecco, direi che le fotografie di Fabrizio Borelli si inseriscono perfettamente nel solco di quell’antica esperienza partecipativa della follia, non esprimono distanza o controllo, né tantomeno giudizio. I suoi primi piani, nella potenza espressiva del bianco e nero, svelano un vissuto travagliato, inquieto. Esteticamente curatissimi, non illustrano semplicemente ciò che è visibile, ma cercano di evocare ciò che sfugge al visibile, il vuoto, l’assenza, l’irrappresentabile. Sono immagini perturbanti, capaci di farci riprovare delle sensazioni o delle impressioni che pensavamo totalmente superate, lontane, “altre”, e che invece ci interpellano da vicino, ci riguardano. L’esperienza del mondo dello schizofrenico non è così estranea al nostro vissuto. Del resto Freud, nel Perturbante, parla di un effetto perturbante della follia: «l’effetto perturbante del mal caduco e della follia ha la stessa origine. Il profano vede qui l’estrinsecazione di forze che non aveva supposto di trovare nel suo prossimo, ma di cui è in grado di percepire oscuramente la presenza in angoli remoti della propria personalità». Qualcosa di rimosso che ritorna. E qui i confini, come ci indica Fabrizio Borelli, si fanno sempre più labili.
FIORELLA BASSAN

“ ma tu non puoi sapere quanto sia difficile per noi entrare fuori”.
Nino B. ospite Padiglione 16 ex O.P. Santa Maria della Pietà, 1993

Il decennale del Museo Laboratorio della Mente, ideato e realizzo con Studio Azzurro, ricorre quest’anno con il quarantennale della Legge 180/78.
Quando Fabrizio Borelli mi ha mostrato il suo reportage fotografico, realizzato nel 1979 seguendo il progetto Uomini e recinti con la partecipazione dei pazienti dall’ex Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà che, attraversando il territorio romano, agivano pubblicamente” regole e dispositivi ancora in uso nel manicomio, rappresentando in modo evidente le difficoltà e i timori di entrare in città, di ritornare in una città che tanti anni prima li aveva espulsi e dimenticati e che solo perché qualcuno aveva deciso di chiudere i manicomi avrebbe dovuto riaccoglierli, si è immediatamente innescato in me un virtuoso processo di analisi delle memorie e delle condizioni attuali del sistema di cura per la salute mentale.
I dati finalmente disponibili del Sistema Informativo Salute Mentale, le indagini qualitative sulla qualità percepita e le criticità evidenziate da utenti, familiari e operatori, le proposte normative a carattere nazionale e regionale offrono un quadro approfondito e dettagliato come non mai, nel nostro Paese. Tuttavia, stentano a decollare proposte realmente innovative e coerenti con il più generale contesto della sanità pubblica, in cui a pieno titolo la Salute Mentale si iscrive.
I rapidi mutamenti che il nostro sistema sanitario sta attraversando costringono a un ripensamento della struttura, dell’organizzazione e delle priorità che i Dipartimenti di Salute Mentale devono assumere, per evitare il rischio di “regressività” o, peggio, di lenta e progressiva consunzione. E’ oggi assolutamente chiaro che “fare salute mentale” di comunità presenta connotazioni molto diverse e richiede nuovi modi, nuovi strumenti, nuove connessioni inter- ed extra-istituzionali, rispetto a 40 anni fa concentrandosi su una serie ben definita di obiettivi: perseguibili, misurabili, in grado di produrre valore per la comunità intera.
Guardando queste fotografie suggerisco di scrollarsi di dosso un sentimento di rievocazione nostalgica perché il rischio, per chi consideri la distanza sempre più marcata tra enunciati teorici e programmi, da un lato, e pratiche operative, applicazioni concrete, dall’altro, è quello di collocarsi in una dimensione di impotenza.
Con il Museo Laboratorio della Mente crediamo invece che la “pratica della memoria” non debba logorare chi la coltiva, ma possa alimentare da un lato la capacità di leggere, nella crisi attuale della salute mentale, la difficoltà di attualizzare i principi della 180 in un contesto culturale, sociale ed economico profondamente mutato; dall’altro, debba incoraggiare un più approfondito dibattito sulle “invarianze di sistema”, che hanno condizionato l’applicazione della Riforma del 1978 superando certa autoreferenzialità operative (ma soprattutto culturali) che per scelta, convenienza o necessità caratterizza ancora il mondo della salute mentale in Italia. Il confronto sulle strategie migliori per affrontare i temi posti alla nostra attenzione, quello sì potrà essere terreno di conflitto: ma esplicito, argomentato, orientato al perseguimento dell’interesse comune
Il Santa Maria della Pietà ci appare oggi come fonte complessa e stratificata del tempo che ci precede, capace di agire sul nostro presente e sul nostro futuro in virtù della relazione che con esso stabiliamo. Le memorie trattenute e celebrate rappresentano una ragnatela di sentieri che registrano nella trama – a vari livelli – le immagini e le assenze (e gli usi di cui sono state oggetto) più eloquenti della nostra storia.
A tale proposito, risultano eloquenti sia i vuoti che i pieni, sia le presenze che le mancanze. Ecco allora che attribuire alle memorie un potenziale, un valore formativo e orientativo, nonché considerarle come generatrici di identità, implica il corretto utilizzo di precise categorie interpretative e scenari storiografici, come collocare vicende ed elaborazioni collettive all’interno di relazioni governate dal senso di responsabilità verso il nostro passato, considerare il presente come terreno di dialogo e di confronto, combattere il rischio delle facili generalizzazioni.
Guardando dal nostro presente queste fotografie e con esse il Santa Maria della Pietà (dove nel 1979 quei pazienti rientravano la sera dopo il loro “peregrinare” nella città) possiamo dunque valutarne lo spessore e la tenuta nelle sensibilità e nelle culture odierne, interrogarci sulla loro rilevanza o caducità, nonché sulla durata dei loro riflessi simbolici.
Un luogo di memorie e narrazioni come il Museo Laboratorio della Mente accoglie queste immagini nel suo processo di organizzazione storico, scientifico, socio-economico, politico e progettuale, permettendo alle tracce di memoria di poter essere osservate e condivise dalla compagine sociale; favorendo la lettura contemporanea di “dati materiali e immateriali”, completando la cartografia storica delle prassi istituzionali e delle pratiche anti-istituzionali, come un doppio e continuo processo dialettico di decostruzione della geografia delle costrizioni spaziali, fisiche, psicologiche, sociali e di ricostruzione della soggettività nell’attraversamento degli “spazi manicomiali” e nell’apparire inatteso delle storie rievocate.
POMPEO MARTELLI
Direttore Museo Laboratorio della Mente ASL Roma1

PARTITURE UMANE – STRAORDINARIA TOURNÉE

Partiture Umane

Accettano le contraddizioni della vita – ricercatori d’anima – per approdare alla condizione armonica, dove il confine ingloba più che divide, comprende, più che distingue, definisce mondi, più che separa. Aspirano al riconoscimento delle molte identità. Costruiscono partiture complesse e virtuose, che a noi parlano di noi e degli altri: impasti sinfonici di corpo e di psiche, di musica e di danza, di prosa e di poesia, di luci e di ombre.
La storia che si racconta si intreccia con tutte le storie di confine, tra estraneità e intimità, tra individuo e comunità, tra regola e trasgressione.
E’ storia di tutti: volti, incontri, rappresentazioni. I temi della fragilità e della frangibilità umana affiorano prepotentemente nelle immagini di una straordinaria tournée, in una città – Roma – riscoperta, ripercorsa, rivissuta. L’esplorazione della frontiera tra normalità e diversità, espressa nella narrazione artistica, propone una meditazione profonda sull’identità e la dignità dei protagonisti. Donne e uomini del nostro tempo guardano, osservati; parlano i dialetti del mondo; ridono di sé e degli altri. Gli sguardi tradiscono l’incantesimo della follia, esplosa in loro anziché nascosta.
L’obiettivo sulla condizione del disagio mentale è puntato per catturarne l’umanità – dove smarrita la meta? quando l’abbandono? – e per trasmettere dell’umanità il senso; per trovare, nel labirinto del caos, la via possibile.
Le fotografie di Fabrizio Borelli sono un inno agli scartati. Emozionano per la tenerezza delle immagini e stupiscono per la naturalezza dei soggetti, che confermano la pazzia parte integrante dell’essere e del vivere. Colpiscono per la teatralità delle composizioni e per le ambientazioni originali. Traducono visitazioni urbane in tableaux vivants.
Recuperare l’anima liberandola e proiettandola – saggezza antica del ritrovare il senso di noi – è missione condotta con successo dall’artista, che segue e riprende l’insolita compagnia di attori, cogliendo sentimenti negli occhi, nelle posture, nelle movenze.
Questa partitura umana, di luci, di ombre, di corpi, è un viaggio della speranza nella città negata – siamo alla fine degli anni settanta, poco dopo la promulgazione della Legge Basaglia – propizio per una nuova appropriazione.
Le rappresentazioni si svolgono in luoghi topici della Capitale – il Tevere, Santa Maria Della Pietà, l’Argentina, Primavalle, il Giardino Zoologico, Il Mattatoio, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Santa Maria in Trastevere – e sono in scena gli oggetti-simbolo di una subita segregazione: lettini, numeri, apparecchiature, coperte, lenzuola, pagliericci.
Quasi cerimonie raccontano di sopravvissuti; traumi, frustrazioni, conflitti, disagi, emarginazioni confermano – nella tenacia della conoscenza, della denuncia, dell’evoluzione – l’affermazione della vita proprio nella follia, che se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda. (William Shakespeare, “La dodicesima notte”, 1599-1601)
Straordinaria Tournée
Il reportage fotografico del settembre–ottobre 1979 trasmette con efficacia l’intenzione di un progetto iniziale, articolato e lungimirante, cogliendo insieme il sentire intimo di quanti – organizzatori, collaboratori, amministratori, accompagnatori e, soprattutto, attori – lo hanno di fatto poi realizzato.
Il Laboratorio Spettacolo – UOMINI E RECINTI – è preannunciato nel documento programmatico VISITAZIONE URBANA – META-PROGETTO S.P.Q.R. ’79 (Armando Casalini, febbraio 1979) che prefigura azioni proprie di un processo destinato a continua evoluzione. Mandato della VISITAZIONE (fare visita), è conoscere, intervenire sull’ambiente, adottando criteri percettivi e simbolici nella rappresentazione dell’urbano. Obiettivo è conservare il territorio, per la trasmissione di testimonianze storiche vissute, con la partecipazione dell’individuo alle leggi di trasformazione insite nel concetto di Società rappresentativa. Sottintesa è una dichiarazione di diritti, contro le forme coercitive, le funzioni alienanti.
Il viaggio attuato comunica, nella messa in scena e nell’improvvisazione, una condizione privata quasi sconosciuta e il desiderio di relazione tra diversità. La manifestazione ripropone il tema del territorio comune, da percorrere e condividere nel solco di un confine superabile, proprio come espresso nel pensiero di un anonimo, ricoverato del Santa Maria della Pietà, che introduce il calendario delle visitazioni: Le reti del manicomio sono quelle che più risaltano agli occhi, ma cosa dire delle reti che tengono imprigionato l’uomo fuori del manicomio? A chi aspettiamo a romperle? Aspettiamo forse di non avere più la forza di farlo?
Andamento lento del corpo e della mente; incantata esplorazione tra presenze dimenticate, di luoghi, di genti, di suoni, di forme, di luci. Il racconto fotografico ha inizio. E’ un viaggio di inattesa malinconica armonia.
Dal fiume al mare, per ritornare a casa. A teatro, al cinema, tra monumenti e rovine, per ritornare a casa.
Al museo, tra forme contemporanee – arte tangibile? attraversabile? – in spazi chiusi, l’ arte è ricoverata, vicina e comprensibile. Questo viaggio è bellezza.
Nel cuore della città, nei quartieri del buon Dio, fuori porta, per ritornare a casa.
Libertà e costrizione confinano: donne e uomini si muovono verso la frontiera dei diritti, testano l’incontro. Nella ricerca dell’anima l’occhio segue, indaga, esamina; l’immagine raccoglie, restituisce. Questo viaggio è speranza.
MARIA ITALIA ZACHEO

Intervista a Pietro Di Giuseppe, 67 anni, psicologo-psicoterapeuta, ex infermiere psichiatrico
a cura di FABRIZIO BORELLI

F.B. In che periodo hai lavorato al S. Maria della Pietà? Quale era la vita di ogni giorno nell’ospedale psichiatrico? Quali erano i rapporti di forza? Quali le dinamiche relazionali tra pazienti e personale medico e paramedico?
P.D.G. Lavoro nel campo della psichiatria dal 1970. Nelle Case di Cura private fino al settembre 1975, sono stato poi assunto come infermiere presso il Santa Maria della Pietà; ancora studente universitario – facoltà di filosofia – mi sono successivamente laureato in psicologia.
La vita quotidiana nell’ospedale poneva in continua relazione personale e pazienti.
La mattina iniziava con la pulizia dei ricoverati allettati e di quelli costretti al letto dalle fasce di contenzione. Era un’operazione sgradevole, in gran parte eseguita dai ricoverati detti boss di camerata, in grado di svolgere molte mansioni, dalla pulizia, al servire i pasti, alla sorveglianza, allo spaccio alimentare per gli infermieri.
Dopo la colazione, la terapia; si accompagnaveno quindi i pazienti autosufficienti al piano terra in sorveglianza. Quando era bel tempo si stava in giardino altrimenti in due grandi saloni del padiglione. Ricordo quei momenti con grande angoscia: il vissuto che condividevamo con i ricoverati era un terribile VUOTO; uno spazio-tempo totalmente vuoto e privo di significato, pieno di nulla.
Il momento del pranzo e della cena o il giorno del bagno ai ricoverati erano buoni riempitivi, ma spesso anche questi erano svuotati di significato perché completamente spersonalizzati.
Il clima spesso violento. L’ambiente era tale che si poteva fare poco o nulla.
Quella condizione era però anche il punto di consapevolezza per molti medici e infermieri che tentavano con ogni mezzo di riaffermare la dignità e il valore della Persona.
Nel reparto, al vertice del potere era la suora caporeparto che gestiva tutta la vita del padiglione, sia per il personale che per i ricoverati. Il primario e i medici invece erano praticamente invisibili, chiusi nella loro stanza, delegando il loro rapporto col padiglione alla presenza incombente della caporeparto. Gli infermieri praticavano tutte le terapie, anche di carattere chirurgico, che erano di spettanza dei medici.

F.B. Terapia elettroconvulsivante, farmaci, contenzione, uso e abuso, cosa puoi dire di questo in base alla tua esperienza?
P.D.G. L’uso delle contenzioni a volte era necessario per la salvaguardia dell’incolumità del ricoverato e degli altri, ma spesso servivano solo per la tranquillità del reparto e del personale, insufficiente e professionalmente non sempre preparato.
In quegli anni l’uso degli psicofarmaci aveva già ridimensionato l’uso dell’elettrochoc. Indubbiamente i farmaci hanno costituito un grande passo avanti nella terapia delle patologie psichiatriche, però di frequente erano usati solo per “mantenere calmi e tranquilli” i ricoverati. Soprattutto la sera, la preoccupazione di molti infermieri era quella di somministrare dosi abbondanti di farmaci per far dormire i ricoverati e quindi poter dormire anche loro.
In quel periodo si cominciava a sussurrare anche di psicoterapia all’interno dell’O.P., proprio come di una rivoluzione che metteva al centro di tutto il sistema la persona con i suoi bisogni, risorse, desideri, fragilità e sofferenze.
Molti medici, assistenti sociali, infermieri si davano da fare per uscire da quelle condizioni terribili, ognuno secondo le proprie possibilità e competenze, ma alla fine le iniziative rimanevano all’interno del “sistema”. La vera spinta al cambiamento veniva da persone attive all’interno di gruppi organizzati, che vedevano la necessità di una rivoluzione socio-politica.

F.B. Come e perchè si finiva in maniconìmio fino al 1978?
P.D.G. La legge del 14 febbraio 1904, “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati” si occupava degli “alienati” e dei loro diritti. La terapia del “coma insulinico” è stata introdotta nel 1933 e l’ elettroshock nel 1938; successivamente è arrivata l’era degli psicofarmaci.
La legge, a cavallo tra disposizioni sanitarie e di pubblica sicurezza, era anche uno strumento per togliere di mezzo tutti quelli che “riescono di pubblico scandalo”, cioè i devianti secondo l’etica, sociale, politica o sessuale dominante. Chi entrava in manicomio perdeva ogni diritto.
L’O.P. era il muro dietro il quali si nascondevano tutte le “cose brutte” che la società non voleva vedere o dalle quali si doveva difendere.
Finivano in manicomio persone con patologie psichiatriche, con handicap fisico o psichico, anziani, senza fissa dimora, i bambini del brefotrofio che una volta arrivati all’età adulta passavano all’O.P. per “naturale transizione”, perché erano vissuti da sempre in un istituzione chiusa e non avevano alcun aggancio con la realtà esterna (casa, lavoro, famiglia).
Il lavoro di contrasto all’istituzione manicomiale doveva partire dall’ABC dell’identità e della dignità personale di chi aveva perso tutto. Bisognava anche ricostruire per loro un indirizzo di residenza perché i legami col proprio territorio e con le proprie famiglie erano stati recisi da molto tempo, bisognava restituire ai ricoverati le proprie pensioni, che venivano invece gestite dalle capo reparto senza che i diretti interessati ne avessero più notizia. Queste trasformazioni destabilizzavano gerarchie e posizioni di potere presenti nell’O.P.

F.B. L’iter della legge Basaglia, l’approvazione, la promulgazione, ebbero eco nell’ospedale e, in generale, tra il personale di assistenza ai degenti? Che parte avevano le famiglie dei pazienti nella loro vita quotidiana, quelle dei pazienti, e che parte ebbero dopo la 180? Che parte hanno oggi?
P.D.G. La legge Basaglia fu contemporaneamente un punto di arrivo e di partenza.
La 180 – scorporata da una più vasta riforma sanitaria e approvata in fretta per evitare un referendum -dava finalmente un riconoscimento al tormentato lavoro di cambiamento che stava avvenendo negli O.P. del centro e del nord Italia.
Subito un nutrito numero di operatori fu trasferito a lavorare sul territorio: i Centri d’Igiene Mentale e il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). Io ero tra questi. Sono stati anni di entusiasmi e di impegno. Il lavoro era tutto da reinventare, anche la nostra professionalità.
Insieme al lavoro propriamente farmacologico e psicoterapeutico che si svolgeva in ambulatorio, le visite domiciliari diventarono un punto fondamentale di incontro degli operatori con la realtà quotidiana dei pazienti e soprattutto con le loro famiglie e con il loro ambiente sociale. Eravamo tutti coinvolti in un progetto umano che era al limite delle possibilità di tutti: pazienti, famiglie, personale sanitario, associazioni di volontariato e singoli cittadini. Tranne alcuni medici, tutti gli altri operatori si sono dovuti formare “sul campo”.
Da subito si poneva l’emergenza alloggiativa per tutte quelle persone che erano in grado di essere dimessi dall’ O,P, ma non avevano una famiglia in cui rientrare. Così si andavano a costituire le Comunità Alloggio, per esempio presso pensionati, che si riciclavano per l’occasione, e le Case famiglia. Ma nessuno di noi aveva esperienza di quelle nuove realtà, dovevamo crescerci dentro anche noi.
Per quello che riguarda gli inserimenti lavorativi mi ricordo che andavamo a contattare artigiani, cooperative, aziende, strutture pubbliche (come ad esempio le Biblioteche comunali, la Rai) e, armati solo dell’entusiasmo, andavamo a costruire dei rapporti di collaborazione per tirocini di lavoro o per inserimenti lavorativi. Mi viene la pelle d’oca a ripensare a quanti successi di veri e propri inserimenti lavorativi si riusciva a realizzare.

F.B. Siamo fuori oggi? Di “matti” non si parla più, da persona che ha vissuto la sua vita nelle “istituzioni psichiatriche” puoi dirci cosa è cambiato nelle relazioni tra pazienti, medici, famiglie, nella loro vita di ogni giorno e nel rapporto con le patologie?
P.D.F. Ho iniziato la mia esperienza entrando nella fossa dei leoni delle cliniche psichiatriche e dell’ O.P. , ho vissuto una stagione di entusiasmi e di impegno sociale ripagato dai successi che vedevamo realizzarsi davanti a noi giorno per giorno. Negli ultimi venti anni ho invece tristemente visto un’involuzione dei servizi psichiatrici. Si parlava di recupero di dignità umana, di reinserimento sociale, di cure psichiche adeguate; la Psichiatria era riuscita a fornire cure e attenzione a una diffusa realtà di disagio e di sofferenza oltre alla grave patologia psicotica. Si pensava alla prevenzione del disagio psichico. Poi sono cominciate le direttive per la riduzione dei tempi; la prevenzione è sparita dai nostri vocabolari. Le risorse economiche per le case famiglia, per i centri diurni e le comunità sono stati abbattuti. L’indicazione sempre più pressante era “occuparsi solo dei gasi gravi”. Le cure psicologiche sono state notevolmente contratte a vantaggio di una nuova medicalizzazione.
Mi consenta di chiudere esprimendo una grande tristezza personale: vedere come oggi siamo tornati a costruire una società che rifiuta, criminalizza e chiude dietro alte mura chi soffre o “appare “diverso da me”.

Phos-Graphis

Quando nel 1727, durante alcuni esperimenti con carbonato di calcio, acqua regia, acido nitrico e argento, lo scienziato tedesco Johann Heinrich Schulze scoprì che la miscela reagiva alla luce e chiamò il suo procedimento scotophorus, portatrice di tenebre. Per far diventare questo composto primordiale phos-graphis, scrittura con la luce, bisognerà aspettare ancora qualche decennio quando un altro scienziato tedesco, un astronomo, John F. W. Herschel propose il nome “fotografia” (e anche “negativo” e “positivo”) in sostituzione di quelle strane espressioni (dagherrotipia, calotipia e antotipia) che erano succedute alla minacciosa parola “scotophorus”. E lo «scrivere con la luce» diventa assai pregnante quando si tenta la rappresentazione di un volto umano: un soggetto caratterizzato da una precisa individuazione formale che, tuttavia, non comporta necessariamente un’equivalenza tra il volto e la sua rappresentazione. Perché, «scrivere con la luce» (e con le ombre) le sembianze di una persona, cogliere l’insieme di segni che la caratterizzano, costituisce una scelta di campo, l’individuazione e la captazione di un carattere che ne costituisce il senso. E quindi, dopo il click, nella “camera oscura” (termine molto antico, del 1039, dovuto allo scienziato arabo Alhazen Ibn Al-Haitham che così chiamò la scatola nella quale tutte le immagini si riproducevano) dove luce e ombre scrivono i segni di ciò che il fotografo ha visto, il volto diventa “rappresentazione” e assume un significato simbolico, entra nel grande “teatro della realtà”, dove le identità vengono interpretate e riprodotte nella loro essenza originaria, per essere fissate in un riquadro visivo in grado di restituirne i caratteri fondamentali e distintivi. Per questo, i volti “scritti con la luce” molti anni fa da Fabrizio Borelli non ci parlano di “malati mentali” ma di persone solo apparentemente sole che hanno “scritto in faccia” la rappresentazione delle relazioni che intrattenevano, oppure subivano, con un universo (e un organizzazione: l’ospedale psichiatrico) di simboli psico-sociali che, pur con l’intenzione di garantire l’esperienza umana di ogni fragilità, tendevano fatalmente a manipolarne la rappresentazione sociale catalogandoli come “matti da manicomio”. Gli scatti della macchina fotografica di Borelli raccontano delle molteplici possibilità di deformazione del volto umano causate dalla psiche, ma non sembrano per nulla intenzionati a spingere colui che guarda a “prenderne possesso” (con il proprio giudizio, oppure con la propria pena). Appaiono, invece, “emblematici”: vogliono restituire al volto fotografato il senso di una vera e propria appartenenza ad una identità, ad una comune identificazione sociale. E la foto diventa un punto di articolazione dei rapporti sociali e un mezzo visibile di espressione di un potenziale semiotico che concerne l’identità di tutti noi, tutti ugualmente coinvolti in un processo culturale di costruzione sociale attraverso categorie interpretative sempre più attente all’umanizzazione delle convenzioni che fondano il vivere sociale. Non è stata forse questa una delle maggiori glorie del neorealismo italiano? E’ forse un caso se l’ultimo atto di quella indimenticabile stagione, “Il Vangelo secondo Matteo” di Pierpaolo Pasolini, non ha avuto bisogno di alterare di una sola virgola il testo evangelico che “annunciava” foto-grafandolo nella pellicola del suo capolavoro? Perché foto-grafando, scrivendo con la luce, in bianco e nero, e senza effetti speciali, attraverso gli anni e le epoche, il modo di guardare il mondo attraverso una lente ottica è diventato un processo esplorativo e cognitivo di quei racconti emozionali con i quali –spesso in modo preponderante- abbiamo operato non solo le scelte estetiche ma anche, e soprattutto, quelle etiche. Come quella rivendicata, negli anni bui del sistema manicomiale, da Franco Basaglia: «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». Ormai sappiamo che fare memoria della “legge 180/78”, la cosiddetta legge Basaglia, significa entrare nell’ethos di ciò che siamo, culturalmente parlando, come italiani. Nella Bibbia, un poeta esclama rivolto a Dio: «Mostra il tuo volto e saremo salvi» (Salmo 79, 4). Anche se scattate in anni passati, le foto di Fabrizio Borelli sembrano contenere questo messaggio: in un Mondo in cui ci si affretta a costruire muri e barriere, proviamo a gridare «mostrami il tuo volto e saremo salvi» a qualcuno di quei nuovi disperati che i custodi dell’attuale momento socio-politico vorrebbero di nuovo contenere (“contenzione” era il termine con cui si inviavano i malati di mente in manicomio) dietro nuovi muri e dentro nuovi centri di isolamento…. Perché abituarsi a guardare il volto di coloro che abitano questa Terra significa disporsi con stupore di fronte alla realtà, relazionarsi e interagire in istituzioni e comunità disciplinate da regole stabilite socialmente. E così che anche aver «scritto con la luce» un volto contribuisce a trasformare la nostra percezione della realtà, a riflettere pragmaticamente sul perché le norme sociali che dobbiamo produrre debbano essere sempre e comunque umane, totalmente umane.
FILIPPO DI GIACOMO

Fabrizio Borelli – Confine, uomini e recinti, ovvero: come rendere luminosa l’ombrA

Fabrizio Borelli ha alle spalle un’intensa ricerca nel campo della restituzione visiva della realtà che ha portato avanti, attraverso il linguaggio video e fotografico, per decenni; la lunga esperienza professionale con numerosi registi, tra cui Ettore Scola, Andrej Arsen’evič Tarkovskij, Luigi Comencini, Giovanna Gagliardo, Bruno Corbucci, Ermanno Olmi, ha allargato i suoi già ampi orizzonti e quella in ambito televisivo gli ha permesso di affinare la sua naturale sensibilità reportistica e il dono della sintesi.
Nel ciclo Uomini e recinti , che l’autore ha proposto solo a molti anni di distanza dalla realizzazione, lui è lì, in quel che succede. Essenziale, senza mediazione, resa in bianco e nero – realizzata con la reflex 35mm e stampata da Borelli nel suo studio – è una Straight Photography che è insieme una sorta di inchiesta e una poetica riconsegna di una frazione di realtà. Egli la indaga in ogni piega e angolazione e sulla carta appare impressionata anche l’empatia che si è sviluppata in quel contesto e ritratto: studium e punctum – per dirla alla Roland Barthes (La chambre claire, Paris 1980) – sono mirabilmente in equilibrio.
Il nostro autore scandaglia i volti, i movimenti, i luoghi, i rapporti tra le persone, la loro singolarità e interiorità; studia lo spazio circostante e come i soggetti ritratti – attori principali non solo di quelle scene qui e ora – vi si confrontano: perché non si tratta di un racconto comune ma straordinario e le immagini lo testimoniano con una eloquenza che carica Borelli di una forza da gigante.
Questa produzione è datata fine 1970, una manciata di mesi dai nuovi 1980: a riguardarli ora, grazie a questi scatti esemplari e rari, quegli anni sembrano ieri… e allo stesso tempo lontanissimi.
Questi i fatti nell’autunno del 1979, alla periferia Nord di Roma, area urbanistica proletaria nota a quel tempo come «una polveriera» a livello socio-politico, era molto attivo il Centro sociale dal nome del suo stesso quartiere, Primavalle. Non lontano sorgeva l’ospedale Santa Maria della Pietà, il manicomio provinciale.
Siamo nel periodo in cui si diede corso all’applicazione della Legge Basaglia, dal nome di Franco, lo psichiatra e promotore della riforma in Italia: la numero 180 del 13 maggio 1978, sugli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori che impose la chiusura dei manicomi e l’istitutiva del Servizio sanitario nazionale (la 833, 23 dicembre). Nonostante solo dopo il 1994, con il Progetto Obiettivo e l’ottimizzazione, a livello nazionale, delle strutture di assistenza psichiatrica, si sia completata la previsione di legge di eliminazione dei residui manicomiali, un primo importantissimo passo, a suo modo rivoluzionario, fu fatto. Fu quasi una festa. In tutto il Paese si organizzarono tante iniziative per reinserire i malati di mente nella società attiva e aprire questa all’accoglimento di quell’altro da sé sino ad allora quasi sconosciuto, celato, considerato diverso e reietto spesso anche dalle proprie famiglie.
Il Centro Sociale e l’ormai ex Ospedale Psichiatrico parteciparono alla manifestazione: Borelli era lì, a testimoniarne gli sviluppi.
Uomini e recinti era la nominazione di questa serie di eventi d’ispirazione movimentista, organizzati e partecipati da chi – ricorda lo stesso Borelli – «si opponeva alle istituzioni totali, dove si entra solo se costretti: carceri, esercito di leva» e, appunto, «ospedali psichiatrici».
In quella stagione ancora calda, molti «aspiravano a guidare gli esclusi verso la conquista e il recupero dell’autonomia e della responsabilità personale, lontano dai trattamenti repressivi o contenitivi». Ebbene, Uomini e recinti, nelle intenzioni degli organizzatori, era proprio questo: la messa in scena delle esistenze dei ricoverati attraverso visite, azioni, happenings da loro interpretati in una sorta di pellegrinaggio nel territorio romano: dal mattatoio, allo zoo, dalle rovine archeologiche alle borgate, dai supermarket alle piazze del centro storico capitolino e persino alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Qui – racconta Borelli – «si tentava di raffigurare e tracciare un percorso immaginario della riabilitazione, in cui gli ospiti delle ex strutture psichiatriche portavano con loro gli strumenti di coercizione che avevano accompagnato la loro vita da internati rendendola manifesta al mondo, il letto di contenzione, la camicia di forza, l’elettroshock».
Se l’incurabilità del sofferente, come ha scritto Franco Basaglia in Morire di classe (1969), «è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita», aprirlo e creare un passaggio è fondamentale, come si vede negli scatti di Borelli che eternano accadimenti e fondamenti. Lo stesso Basaglia, nel suo Il problema della gestione (1968) indica che «Per poter veramente affrontare la malattia, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?».
Nelle immagini di Confine, Borelli perpetua episodi e tappe che allegoricamente articolavano gli avvenimenti in Uomini e recinti; al dato sovrappone la propria peculiare visione, vi porta la sua sensibilità, una cultura contaminata e quella fotografica. Tutto è restituito con uno svolgimento «sentimentale» – come rilevò anche Giuliana Stella già nel giugno del 1996 a proposito di uno specifico lavoro di Borelli (Archivi distratti) – che corrisponde a quello del suo contatto con la realtà ed è fissato dalle sue foto insieme allo spectrum. Questo carattere emotivo nulla toglie alla durezza della situazione e del taglio concettualistico della materia fotografica: vi troviamo canto e testimonianza disincantata. In essa, di volta in volta, può echeggiare il fiero riscatto alla Pellizza da Volpedo de Il quarto Stato o lo smarrimento di una ragazza interrotta: mi viene in mente quella Narcisa rinchiusa nel manicomio di Arezzo, dai cui archivi emerse una vecchia foto anonima che mi fu svelata, come la sua storia, da un grande basagliano, Gigi Attenasio (narrazione sviscerata poi dall’intensa Maria Inversi nel libro Io come questi non ci divento. Narcisa alle alghe, 2013). C’è un po’ di Narcisa in ognuna delle persone riconsegnate in Confine da Borelli. Donne e uomini attraversano qui in foto, come attraversarono nella vita, una città in massima parte sospettosa o indifferente; la animarono (o ri/animarono) e la fecero più consapevole, forse e soprattutto, dopo aver dato ragione al Paul Celan del verso «Dice verità chi dice ombra» (in Parla anche tu), e superandolo, resero allora, e per sempre nelle fotografie del nostro autore, luminosa quell’ombra.
BARBARA MARTUSCIELLO

NOTE DELL’AUTORE
Molte persone e alcune istituzioni hanno contribuito, con il loro lavoro, con i loro suggerimenti e con il loro sostegno, alla pubblicazione di questo libro e alla divulgazione del fondo fotografico Uomini e Recinti, realizzato sul finire degli anni ’70. Furono gli anni del terrorismo, della crisi economica, dei conflitti politici e sociali, profondi e violenti, ma furono anche gli anni delle riforme e dei diritti civili, un decennio come mai nel nostro paese. Sono lontano, molto lontano da qualsivoglia nostalgia, ma la propensione positiva e dinamica che si fece strada allora costituì, di fatto, la tenuta del paese, in un periodo non privo di profondissime ombre, e può essere oggi occasione di riflessione.
La dimensione estetica delle fotografie si mescola con la dimensione documentaria. Le strade e le piazze di Roma divennero palcoscenico di una realtà tenuta fino a quel momento segregata, un mondo che liberò le proprie energie in modo plastico. Giovane fotografo di strada fui affascinato da quei cortei scanzonati e dolenti, percorsi da volti segnati da vite secretate e autentiche, costellati di simboli sedimentati e improvvisati, metafore della contenzione, di una difficile e, col senno del poi, lunghissima liberazione.
Le fotografie furono scattate su pellicola negativa 35 mm. Le stampe oggi sono realizzate con tecnica giclée, a mia cura, non per l’eventuale difficoltà del procedimento analogico che tutt’ora uso in alcune circostanze, ma per coerenza estetica dei materiali fine art che, meglio di altri, riescono a riprodurre le armonie dei grigi, dei bianchi e dei neri e la separazione dei toni delle carte baritate graduate e dei chimici che allora si usavano per questo tipo di immagini.
Infine una nota sul titolo del libro, Confine 1. Il concetto di confine attraversa il nostro tempo. I confini geografici sono linee convenzionali che definiscono l’identità dei popoli e, talvolta, la difendono; smantellarli è occasione di incontro o di smarrimento. Se usciamo dall’interpretazione geografica il confine diventa demarcazione delle diversità dello spirito, separazione tra dimensioni profonde dell’essere umano, delle esperienze, degli affetti, delle memorie, dei mondi interni.
A molti anni di distanza, quando ho ri-preso in mano questo lavoro, la prima cosa che mi è saltata agli occhi è proprio l’idea di confine tra dimensioni profonde che trovano espressione nei volti, nei corpi, nelle posture, che assorbono e restituiscono la luce, ciascuna in modo diverso, la dimensione propria della fotografia. Confine non tra normalità e follia ma tra vita e vita, dove ciascuna ha intrinsecamente il medesimo valore, al di là del ruolo che il destino riserva a ciascuno. Confine 1 è il primo capitolo di un progetto volto a indagare la permeabilità della dimensione visibile della figura umana.

APPENDICE, a cura di CHIARA VELOCCI
Il decennio dei diritti civili e la legge Basaglia, una legge di confine.

1970 – 1979

1970 Il Parlamento approva lo Statuto dei lavoratori, che si propone di tutelare diritti, garantendo tra l’altro la libertà sindacale e politica nei luoghi di lavoro.
È varata la legge sui Referendum, in attuazione dell’articolo 75 della Costituzione.
Il Parlamento approva la legge Fortuna-Baslini sul divorzio.
Thomas Szasz pubblica The Manufacture of Madness: A Comparative Study of the Inquisition and the Mental Health Movement, uno dei suoi libri più importanti in cui esamina le somiglianze tra l’Inquisizione e la psichiatria istituzionale, rafforzando le sue teorie sul mito della malattia mentale.

1971 E’ pubblicato La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale, di Franco Basaglia e Franca Ongaro.

1972 A luglio è costituita la Federazione Sindacale Unitaria CGIL-CISL-UIL.
Nel mese di giugno si tiene a Stoccolma la Conferenza ONU per l’ambiente.
15 dicembre 1972: disciplina dell’Obiezione di Coscienza e istituzione del Servizio Civile Obbligatorio, alternativo e sostitutivo a quello militare per chi, risultato idoneo alla visita di leva, non volesse prestare servizio armato.
Lo psichiatra e antropologo americano Gregory Bateson (1904/1980) scrive Verso una ecologia della mente, che spiega il rapporto tra natura e cultura, tra biologia e storia. L’autore si oppone alla medicalizzazione della malattia mentale, non limitandosi a considerarla solo come caso clinico, ma studiandola in relazione all’ambiente sociale e culturale e al sistema di valori di riferimento a cui il malato mentale si trova di fronte.
Entrano in commercio i primi test di gravidanza realizzabili in casa, senza l’aiuto di analisi cliniche.
Il 16 dicembre 1972 nasce la Cooperativa Lavoratori Uniti – CLU Franco Basaglia, dal nome del suo fondatore – riconosciuta giuridicamente un anno dopo: è costituita da donne e uomini internati che, in nome dell’ergoterapia, svolgono attività di pulizia, lavanderia, trasporto lenzuola all’interno delle mura dell’Ospedale San Giovanni. Un prototipo di cooperativa sociale.

1973 Nel mese di gennaio si giunge a un armistizio in Vietnam.
A febbraio Marco Cavallo, cavallo blu di cartapesta, esce dall’Ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste accompagnato da tutti i pazienti, gli psichiatri, gli infermieri, gli artisti che insieme lo hanno realizzato, dando vita a un laboratorio di idee e sogni divenuti finalmente realtà. Marco Cavallo è così alto che, per farlo uscire dall’ospedale, è necessario abbatterne la porta, con evidente riferimento simbolico. Una volta libero, sfila per le vie della città accompagnato da un corteo numerosissimo, a cui si uniscono anche i cittadini che, fino a quel momento, conoscevano solo le mura esterne del manicomio.
A settembre in Cile le Forze Armate guidate da Augusto Pinochet instaurano la Dittatura militare. Il presidente Salvador Allende perde la vita durante l’occupazione de La Moneda.
L’American Psychiatric Association sostiene la derubricazione dell’omosessualità dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (dopo una lunga battaglia, viene definitivamente eliminata come malattia mentale il 17 maggio del 1990).

1974 Il 28 maggio una bomba uccide 8 persone in piazza della Loggia a Brescia, durante una manifestazione sindacale. Il 4 agosto una bomba esplode su una carrozza del treno Italicus: dodici vittime e circa quaranta feriti.
Il Referendum sul divorzio respinge la proposta di abrogazione della legge vigente.
Grazie ad una sentenza favorevole della Corte Costituzionale. inizia l’era dell’emittenza privata; nel mese di settembre nasce Tele Milano, antesignana di Canale 5.
A maggio Bruce Springsteen, al comando di una band formata da compagni di scuola, la “E- Street Band”. Nello stesso anno i Rolling Stones escono con il loro album ” It’s only Rock ‘n Roll”, lanciando con il brano omonimo uno slogan che resterà nella storia.
Il neuropsicologo russo Aleksandr R. Lurija (1902/1977) pubblica La storia sociale dei processi cognitivi e Neuropsicologia della memoria.
Si tiene a Gorizia il convegno La pratica della follia; viene sottolineata la relazione tra movimento antiistituzionale e forze politiche-sindacali.
Nel corso dell’anno si aprono i primi centri di salute mentale sul territorio.

1975 Si conclude la guerra del Vietnam.
Il Parlamento porta la maggiore età da 21 a 18 anni.
Le camere approvano il Nuovo diritto di famiglia, che introduce importanti cambiamenti: la legge riconosce la parità giuridica dei coniugi, attribuisce a entrambi la patria potestà, elimina l’istituto della dote e introduce la comunione dei beni, abroga ogni distinzione tra figli legittimi e naturali e consente alla donna di conservare il proprio cognome. Inoltre, nella successione ereditaria, il coniuge superstite diventa erede.
Il Partito Comunista di Enrico Berlinguer acquista maggiore peso nella vita politica del Paese.
Una svolta storica nelle comunicazioni con la nuova regolamentazione del servizio pubblico (L.103). Nascono quindi le prime radio libere.
Due importanti documentari sul disagio della malattia mentale: Matti da slegare, di Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli Anna di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli. Sullo stesso tema, da Hollywood arriva un film straordinario che sbanca i botteghini: Qualcuno volò sul nido del cuculo, di Milos Forman, con Jack Nicholson, destinato a diventare un cult cinematografico.

1976 Le radio libere – tra le molte Radio Alice, Radio Popolare di Milano, Radio Onda Rossa, Radio Città Futura – conoscono un vero e proprio boom di ascolti e consensi. Cresce di conseguenza anche l’informazione sociale e soprattutto quella musicale, che dà il via ad una crescita del settore discografico senza precedenti.
E’ l’esordio del punk, espressione forte del disagio giovanile.
La stagione cinematografica è caratterizzata da film molto discussi come Casanova di Fellini, Novecento di Bertolucci e Taxi Driver di Martin Scorsese.
Il generale Vileda diventa presidente dell’Argentina, dopo il colpo di stato del 24 marzo. Gli oppositori del regime – desaparecidos – sono torturati e assassinati in segreto.

1977 A gennaio viene annunciata la chiusura del manicomio San Giovanni di Trieste.
Il segretario della CGIL Luciano Lama è contestato dagli autonomi alla Sapienza.
Un’ondata di proteste studentesche investe il Paese, concentrandosi soprattutto a Roma, Bologna e Padova.
III incontro del Réseau internazionale di alternativa alla psichiatria, intitolato Il circuito del controllo, al San Giovanni di Trieste: partecipano circa quattromila persone.

1978 Tra le pellicole memorabili del cinema americano Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg. La musica dance vede l’affermazione a livello mondiale del gruppo svedese degli Abba.
Il 16 marzo le Brigate rosse rapiscono Aldo Moro, trucidando i cinque poliziotti della sua scorta. Il 9 maggio il corpo di Moro è ritrovato in una Renault 4 rossa in via Caetani, a metà strada tra le sedi nazionali del PCI e della DC, nel centro di Roma. Lo stesso giorno viene ucciso dalla mafia siciliana Peppino Impastato, conduttore radiofonico che ha il coraggio di sfidare tra gli altri suo cugino Gaetano Badalamenti, capo della cosca mafiosa di Cinisi.
Il 15 giugno il Presidente della Repubblica Leone, attaccato da una feroce campagna di stampa che lo accusa di essere coinvolto in una serie di scandali, è costretto alle dimissioni. L’8 luglio viene eletto Presidente Sandro Pertini.
Il Governo vara due leggi importanti, a distanza di pochi giorni: Il 13 maggio la Legge Basaglia (n. 180), che riforma gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori; il 18 maggio la Legge sull’interruzione volontaria di gravidanza che depenalizza l’aborto. Alla fine dell’anno – 23 dicembre – il Parlamento approva la legge che sopprime il sistema mutualistico ed istituisce il SSN (Servizio sanitario nazionale); il diritto alla salute trova fondamento nell’art. 32 della Costituzione.
Lo psichiatra e psicoanalista austriaco Heinz Kohut pubblica La ricerca del Sé. L’autore individua e concettualizza i disturbi narcisistici della personalità, sostenendo che possono essere trattati e curati con la psicoanalisi.

1979 Margaret Thatcher e Maria de Lourdes Pintasilgo vengono elette Primo ministro, del Regno Unito e del Portogallo: sono le prime donne in Europa a guidare un Governo.
Dal 7 al 10 giugno per la prima volta viene eletto il Parlamento europeo: il partito di maggioranza relativa è il Partito del Socialismo Europeo.
Fa scalpore il rapimento di Fabrizio De Andre’ e Dori Ghezzi, che vengono sequestrati in Sardegna.
Dal 28 settembre al 28 ottobre è in calendario a Roma il laboratorio-spettacolo Uomini e Recinti, condotto da Armando Casalini.
Al cinema escono due grandi film: Il cacciatore di Michael Cimino e Apocalipse Now di Francis Ford Coppola, entrambi sul tema della guerra in Vietnam.
Una straordinaria novità per l’ascolto della musica è la commercializzazione del walkman, che permette di ascoltare le musicassette camminando.
Uomini e recinti
Relazione dell’architetto Armando Casalini su: Visitazione urbana. Meta – progetto S.P.Q.R. ’79, Bologna, febbraio 1979.
Sceneggiatura, Roma, 26 giugno 1979.
Sceneggiatura, Roma, 3 luglio 1979.
Uomini e recinti, laboratorio spettacolo condotto da Armando Casalini, con la partecipazione di un gruppo di ricoverati dell’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà, Teatro di Roma, 28 settembre – 28 ottobre 1979.
Programma di lavoro per costruire un potere da presentare al potere. Elementi per un programma di lavoro di gruppo, Roma, 13 novembre 1979.
Happening di “matti” in città, in Il Messaggero, 28 settembre 1979.
Fuori dal recinto tra la pazza folla, in La Repubblica, 28 settembre 1979.
Quando gli uomini superano i recinti, in Il Tempo, 28 settembre 1979.
In gita con i matti da slegare, in La Repubblica, 29 settembre 1979.
Oltre il muro, passeggiando nel mondo degli altri, in Corriere della Sera, 30 settembre 1979.
Quando il letto di contenzione fa spettacolo – denuncia, in Paese Sera, 2 ottobre 1979.
Gli uomini e le donne di Santa Maria della Pietà leggono le loro poesie in un teatro di Roma, in Il Manifesto, 3 ottobre 1979.
Vorrei esser libero. Come un poeta, in La Repubblica, 3 ottobre 1979.
Pop art e body art fuori catalogo alla mostra di Leoncillo, in Paese Sera, 5 ottobre 1979.
I “folli” alla scoperta di una città, in Corriere della Sera, 6 ottobre 1979.
Uomini, recinti, città. Scusi tanto, ma i matti quali sono?, in Paese Sera, 8 ottobre 1979.
Venite, restate insieme a noi. E i matti ritornano alla città, in La Repubblica, 9 ottobre 1979.
Dopo lo zoo nelle strade di Trastevere. Non siamo matti, vogliamo star fuori, in Corriere della Sera, 16 ottobre 1979.
I matti ospiti delle famiglie di Primavalle, in Paese Sera, 22 ottobre 1979.
Antenna: Uomini e recinti, in Radio e TV. Notiziario della Radiotelevisione Italiana, 1 aprile 1980.
I pazzi scoprono Roma in un programma alla TV, in Avanti!, 10 aprile 1980.

COMUNICATO STAMPA
Fabrizio Borelli Confine 1/ Storia di luci e di ombre
Corner MAXXI – Roma
10 – 13 maggio 2018

Giovedì 10 maggio, alle ore 19.00, si inaugura al Corner MAXXI, lo spazio che affaccia nella piazza del Museo nazionale delle arti del XXI secolo, la mostra fotografica Fabrizio Borelli Confine 1 / Storia di luci e di ombre.
La mostra, a cura di Maria Italia Zacheo, organizzata da X-FRAME associazione culturale, sostenuta dal Municipio Roma II, in collaborazione con il MAXXI, propone una selezione di fotografie dell’artista romano – l’intero corpus conta alcune centinaia di scatti – realizzate nell’autunno del 1979, in occasione della manifestazione Uomini e recinti svolta nel pieno della discussione sulla Legge 180, la legge Basaglia.
Santa Maria della Pietà, Tevere, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Piazza S. Maria in Trastevere, Giardino Zoologico, Largo di Torre Argentina e omonimo Teatro, Mattatoio, quartiere di Primavalle, furono le tappe di un itinerario della riabilitazione, percorso dai protagonisti della tournée – i pazienti dell’ospedale psichiatrico – che rappresentarono il loro vissuto portando con sé e rendendo manifesti al mondo, gli strumenti di coazione che li avevano accompagnati nella vita da internati: il letto di contenzione, la camicia di forza, l’ elettroshock.
La mostra documenta l’entusiasmo e lo smarrimento di questo gruppo di donne e di uomini che attraversarono in più tappe una città indifferente o incredula e che, nel silenzio, rientrarono ogni volta, la sera, in manicomio.
Arricchisce l’esposizione un libro fotografico (Lithos editrice): 130 immagini, note dell’autore e testi di Fiorella Bassan, Francesca Del Bello, Cecilia D’Elia, Filippo Di Giacomo, Pompeo Martelli, Barbara Martusciello, Chiara Velocci, Maria Italia Zacheo.
L’opera – un racconto fotografico – è omaggio alla vita. E’ insieme omaggio a Franco Basaglia, psichiatra promotore della legge nota con il suo nome, che con straordinario impegno lavorò alla riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale per il superamento della logica manicomiale. E’ ringraziamento a quanti sostennero un’operazione così rivoluzionaria. E’ invito a riflettere sull’attualità del tema della diversità, nel quarantesimo anniversario della Legge n. 180 (13 maggio 1978), che riformò gli “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”.

“Come Municipio Roma II abbiamo voluto sostenere e organizzare la mostra di Fabrizio Borelli Confine#1/ Storia di luci e di ombre perché testimonia, con la forza che solo l’arte può avere, uno di quei momenti di mobilitazione sociale e di impegno per la costruzione di una società più aperta. Nel farlo ci offre l’occasione per riflettere sulla salute mentale oggi e sugli spazi di autodeterminazione delle persone che come amministratori locali siamo chiamati a promuovere e tutelare”
Francesca Del Bello – Presidente Municipio Roma II
In occasione dell’inaugurazione della mostra Fabrizio Borelli Confine 1 / Storia di luci e di ombre, la Galleria 1 del MAXXI, sede della collezione permanente, sarà aperta fino alle ore 21.00 per consentire ai pubblico di vedere le fotografie di Letizia Battaglia del progetto dedicato all’ospedale psichiatrico di via Pindemonte a Palermo.

L’inaugurazione sarà preceduta dal Reading del gruppo teatrale del Centro Diurno di via Montesanto, alle ore 15.00 e, a seguire, da un INCONTRO che avrà come tema La salute mentale a 40 anni dalla legge 180. Gli appuntamenti si svolgeranno nella SALA GRAZIELLA LONARDI BUONTEMPO, museo MAXXI.

Fabrizio Borelli è impegnato da sempre nel campo della restituzione visiva della realtà. La costante ricerca – prediletto il linguaggio video e quello fotografico – e l’esperienza professionale, lunga e di ampio respiro, nel cinema – ha lavorato con numerosi registi, tra i quali Ettore Scola, Andrei Tarkovskij, Luigi Comencini, Giovanna Gagliardo, Bruno Corbucci, Ermanno Olmi – insieme all’attività in ambito televisivo, a lungo regista per le reti RAI, hanno arricchito l’estrema sensibilità reportistica e la capacità di sintesi.