Confine#1 Melpignano agosto 2017
di Fabrizio Borelli
STORIE DI LUCI E DI OMBRE
PARTITURE UMANE
di Maria Italia Zacheo
Accettano le contraddizioni della vita – ricercatori d’anima – per approdare alla condizione armonica, dove il confine ingloba più che divide, comprende, più che distingue, definisce mondi, più che separa. Aspirano al riconoscimento delle molte identità. Costruiscono partiture complesse e virtuose, che a noi parlano di noi e degli altri: impasti sinfonici di corpo e di psiche, di musica e di danza, di prosa e di poesia, di luci e di ombre.
La chiave è nella finestra, la chiave è nella luce del sole alla finestra – Ho la chiave (…) la chiave è nelle sbarre, nella luce del sole nella finestra, scrive Allen Ginsberg (1959), riportando i pensieri di Naomi, sua madre, espressi in una lettera che a lui invia, qualche giorno prima di morire (1956), dall’ospedale psichiatrico dove è ricoverata. E proprio da questa concisa visione di Noemi – superamento del confine tra costrizione e liberazione – ha origine un poema (Kaddish).
La storia che questa mostra racconta si intreccia con tutte le storie di confine, tra estraneità e intimità, tra individuo e comunità, tra regola e trasgressione.
E’ storia di tutti: volti, incontri, rappresentazioni. I temi della fragilità e della frangibilità umana affiorano prepotentemente nelle immagini di una straordinaria tournée, in una città – Roma – riscoperta, ripercorsa, rivissuta. L’esplorazione della frontiera tra normalità e diversità, espressa nella narrazione artistica, propone una meditazione profonda sull’identità e la dignità dei protagonisti. Donne e uomini del nostro tempo guardano, osservati; parlano i dialetti del mondo; ridono di sé e degli altri. Gli sguardi tradiscono l’incantesimo della follia, esplosa in loro, anziché nascosta.
L’obiettivo sulla condizione del disagio mentale è puntato per catturarne l’umanità – dove smarrita la meta? quando l’abbandono? – e per trasmettere dell’umanità il senso; per trovare, nel labirinto del caos, la via possibile.
Le fotografie di Fabrizio Borelli sono un inno agli scartati. Emozionano per la tenerezza delle immagini e stupiscono per la naturalezza dei soggetti, che confermano la pazzia parte integrante dell’essere e del vivere. Colpiscono per la teatralità delle composizioni e per le ambientazioni originali. Traducono visitazioni urbane in tableaux vivants.
Recuperare l’anima liberandola e proiettandola – saggezza antica del ritrovare il senso di noi – è missione condotta con successo dall’artista, che segue e riprende l’insolita compagnia di attori, cogliendo sentimenti negli occhi, nelle posture, nelle movenze.
Questa partitura umana di luci, di ombre, di corpi, …, è un viaggio della speranza nella città negata – siamo alla fine degli anni settanta, poco dopo l’approvazione della Legge Basaglia – propizio per una nuova appropriazione.
Le rappresentazioni si svolgono in luoghi topici della Capitale – il Tevere, Santa Maria Della Pietà, l’Argentina, Primavalle, il Giardino Zoologico, Il Mattatoio, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Santa Maria in Trastevere – e sono in scena gli oggetti- simbolo di una subita segregazione – lettini, numeri, apparecchiature, coperte, lenzuola, … .
Quasi cerimonie che raccontano di sopravvissuti, evocano altre situazioni, altre immagini, altri rituali, inaccettabili per la cura della follia. Nel procedere, la nostra carovana giunge nella terra della Pizzica, ancora una partitura umana – cromatica, coreutica, musicale – che sublima le sue origini legate alle terapie di guarigione dei culti dionisiaci e del tarantismo.
La taranta si fa ragno/ diventa ragno/ che è in lei/ il suo pensiero si muta/ in ritmo puro/ e nel movimento quasi meccanico/ sorgono figure di liberazione/ travolte però ancora da ombre/ disperate/ Ora la donna in piedi/ lotta con la taranta,/ immaginando di calpestarla/ e di ucciderla col piede che batte la danza (Salvatore Quasimodo, 1959). Traumi, frustrazioni, conflitti, disagi, emarginazioni non impediscono – nella tenacia della conoscenza, della denuncia, dell’evoluzione – l’affermazione di una vita dove la follia se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda (William Shakespeare, 1602).