Confine#1 – Come rendere luminosa l’ombra
di Barbara Martusciello
Fabrizio Borelli ha alle spalle un’intensa ricerca nel campo della restituzione visiva della realtà che ha portato avanti, attraverso il linguaggio video e fotografico, per decenni; la lunga esperienza professionale con numerosi registi, tra cui Ettore Scola, Andrei Tarkovskij, Luigi Comencini, Giovanna Gagliardo, Bruno Corbucci, Ermanno Olmi, ha allargato i suoi già ampi orizzonti e quella in ambito televisivo gli ha permesso di affinare la sua naturale sensibilità reportistica e il dono della sintesi.
La sua Fotografia procede per cicli e con questa personale, titolata Confine#1, è mostrato uno di quelli in bianco e nero, essenziale, senza mediazione, che Borelli stampa da solo nel suo studio. Con la reflex 35mm lui è lì, in quel che succede. Vediamo una Straight Photography che è insieme una sorta di inchiesta e una poetica riconsegna di una frazione di realtà. Egli la indaga in ogni piega e angolazione e sulla carta appare impressionata anche l’empatia che si è sviluppata in quel contesto ritratto: studium e punctum, per dirla alla Roland Barthes (La chambre claire, Paris 1980), sono mirabilmente in equilibrio.
Il nostro autore scandaglia i volti, i movimenti, i luoghi, i rapporti tra le persone, la loro singolarità e interiorità; studia lo spazio circostante e come i soggetti ritratti – attori principali non solo di quelle scene qui e ora – vi si confrontano. Perché non si tratta di un racconto comune ma straordinario e le immagini lo testimoniano con una eloquenza che carica Borelli di una forza da gigante.
Rispetto alla sua vasta produzione, questa selezionata per l’esposizione Confine#1 è un po’ remota, datata fine 1970, una manciata di mesi dai nuovi 1980: a riguardarli ora, grazie a questi scatti esemplari e rari, quegli anni sembrano ieri… e allo stesso tempo lontanissimi.
Questi i fatti.
Nell’autunno del 1979, alla periferia Nord di Roma, area urbanistica proletaria nota a quel tempo come «una polveriera» a livello socio-politico, era molto attivo il Centro sociale dal nome del suo stesso quartiere: Primavalle. Non lontano sorgeva l’ospedale Santa Maria della Pietà, il manicomio provinciale.
Siamo nel periodo in cui si diede corso all’applicazione della Legge Basaglia, dal nome di Franco, lo psichiatra e promotore della riforma in Italia: la numero 180 del 13 maggio 1978, sugli Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori che impose la chiusura dei manicomi e l’istitutiva del Servizio sanitario nazionale (la 833, 23 dicembre). Nonostante solo dopo il 1994, con il Progetto Obiettivo e l’ottimizzazione, a livello nazionale, delle strutture di assistenza psichiatrica, si sia completata la previsione di legge di eliminazione dei residui manicomiali, un primo importantissimo passo, a suo modo rivoluzionario, fu fatto. E fu quasi una festa. In tutto il Paese si organizzarono tante iniziative per reinserire i malati di mente nella società attiva e aprire questa all’accoglimento di quell’altro da sé sino ad allora quasi sconosciuto, celato, considerato diverso e reietto spesso anche dalle loro stesse famiglie.
Il Centro Sociale e l’ormai ex Ospedale Psichiatrico diedero vita alla loro manifestazione, e Borelli era lì a testimoniarne gli sviluppi. Uomini e recinti era la nominazione di questa serie di eventi d’ispirazione movimentista, organizzati e partecipati da chi – ricorda Borelli – «si opponeva alle istituzioni totali, dove si entra solo se costretti: carceri, esercito di leva» e, appunto, «ospedali psichiatrici». In quella stagione ancora calda, molti «aspiravano a guidare gli esclusi verso la conquista e il recupero dell’autonomia e della responsabilità personale, lontano dai trattamenti repressivi o contenitivi». Ebbene, Uomini e recinti, nelle intenzioni degli organizzatori, era proprio questo: la messa in scena delle esistenze dei ricoverati attraverso visite, azioni, happenings da loro interpretati in una sorta di pellegrinaggio nel territorio romano. «Al mattatoio, allo zoo, alle rovine archeologiche, nelle borgate, nei supermarket, nelle piazze del centro storico capitolino, persino alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna – racconta Borelli –, si tentava di raffigurare e tracciare un percorso immaginario della riabilitazione, in cui gli ospiti delle ex strutture psichiatriche portavano con loro gli strumenti di coercizione che avevano accompagnato la loro vita da internati rendendola manifesta al mondo, il letto di contenzione, la camicia di forza, l’elettroshock».
Se l’incurabilità del sofferente, come ha scritto Franco Basaglia in Morire di classe (1969), «è spesso implicita nella natura del luogo che lo ospita», aprirlo e creare un passaggio è fondamentale, come si vede negli scatti di Borelli che eternano accadimenti e fondamenti. Lo stesso Basaglia, nel suo Il problema della gestione (1968) indica che «Per poter veramente affrontare la malattia, dovremmo poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori sul quale e dal quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano?».
Nelle immagini di Confine#1 Borelli perpetua episodi e tappe che allegoricamente articolavano gli avvenimenti in Uomini e recinti; al dato sovrappone la propria peculiare visione, vi porta la sua sensibilità, una cultura contaminata e quella fotografica. Tutto è restituito con uno svolgimento «sentimentale» – come rilevò anche Giuliana Stella già nel giugno del 1996 a proposito di uno specifico lavoro di Borelli (Archivi distratti) – che è quello del suo contatto con la realtà ed è fissato dalle sue foto insieme allo spectrum e che nulla toglie alla durezza della situazione e del suo taglio concettualistico. La materia fotografica è certamente testimonianza disincantata ma è, insieme, anche canto. Dove di volta in volta può echeggiare lo smarrimento di una ragazza interrotta – come quella Narcisa del manicomio di Arezzo dai cui archivi emerse una cui vecchia foto che mi fu svelata, come la sua storia, da un grande basagliano, Gigi Attenasio (narrazione sviscerata poi dall’intensa Maria Inversi nel libro Io come questi non ci divento. Narcisa alle alghe, 2013) – e il fiero riscatto alla Pellizza da Volpedo de Il quarto Stato. Donne e uomini attraversano qui in foto, come attraversarono nella vita, una città in massima parte sospettosa o indifferente, animandola e, dopo aver dato ragione al Paul Celan del verso «Dice verità chi dice ombra» (in Parla anche tu), e superandolo, resero allora, e per sempre nelle fotografie del nostro autore, luminosa quell’ombra.