Il colore è un urlo, poetico e disordinato come un pezzo jazz. Primo step per entrare nell’opera di Fabrizio Borelli, il colore è l’affermazione del suo universo interiore.
Qualcosa in questo dinamismo cromatico – abbinato alla gestualità del segno, a certa iconografia – riporta alla spontaneità compulsiva della Street Art, memore del percorso dalle avanguardie storiche al linguaggio di cartoon e videogame. Lì, però, il colore delle bombolette spray lancia al mondo il suo messaggio di rivincita sui grigiori – urbanistici e sociali – urlando una contestazione che è anche l’attribuzione dell’unicità dell’atto creativo.
Piuttosto, nell’opera di Borelli l’aggressività cede il posto alla sublimazione. Il colore come elemento di raccordo di frammenti sospesi tra realtà e immaginazione.
Un colore talvolta esasperato e saturo – dichiaratamente innaturale – quello che caratterizza “Re-Mix (???)”, che dialoga con i segni. La freccia, prima di tutto, ma anche il ragno e la ragnatela, gli scarabocchi e quei due occhi schematizzati che rimandano all’icona di Fantômas. Per l’artista questi “occhi” sono la firma, una sorta di alter ego – quindi – che entra nell’opera stessa, alla ricerca dell’essenza. L’autore è anche spettatore del divenire artistico.
Poi c’è la parola associata alle immagini, talvolta accompagnata dal ritmo dei segni. Parole, frasi, poesie. Parti di un diario intimo aperto all’universalità del contenuto. La grafia che lo diffonde è stranamente incerta, tremolante, quasi a lasciar trapelare uno stato d’animo libero da condizionamenti.
Tutto parte dalla fotografia per tornare alla fotografia. E’ da qui che si muove l’autore negli anni Settanta. In mezzo ci sono anni di riflessioni, contaminazioni.
E’ interessante soffermarsi sugli esordi di Fabrizio Borelli, che si traducono nel suo grande amore per la camera oscura. Ventenne maneggia con disinvoltura l’ingranditore, studia la magia del racconto dipinto con la luce, stampando per sé e per altri fotografi, tra cui Tano D’Amico e Sandro Becchetti. Lezioni di vita nutrite di nozioni tecniche portano l’autore ad appassionarsi alle storie sottotraccia, come quando si sofferma sui quei volti che svelano un vissuto travagliato, inquieto. E’ così in Uomini e recinti, un lavoro sui problemi dell’ospedalizzazione psichiatrica a Roma – uno dei pochi sopravvissuti alla perdita accidentale del suo archivio fotografico – che l’autore modula con tutta la potenza espressiva del bianco e nero. A questo farà seguito il documentario sulle Giornate della Solidarietà di Arezzo.
La fase successiva, negli anni ’80, segna il passaggio al colore, alla sperimentazione. Architetture, interni, immagini pubblicitarie che il fotografo monta e smonta (spesso ricorrendo alla complicità dell’aerografo o della doppia esposizione) nei suoi “collage virtuali” ante litteram. Mindscapes sono paesaggi della mente attraversati da atmosfere spiazzanti, vagamente surreali, in cui tuttavia il soggetto è pur sempre reale e ricollocato nell’inquadratura attraverso l’obiettivo del banco ottico.
La terza fase – il presente – ha inizio nel 2007, con un salto ventennale dagli esordi. Un lungo intervallo in cui l’immagine in movimento ha preso il posto di quella fissa.
Ogni esperienza crea la texture individuale, certamente. Ne è consapevole Fabrizio Borelli che nel suo iter professionale – da cineoperatore a regista – ha lavorato accanto a maestri come Olmi, Comencini, Tarkovskij, Scola… Anche quando si è trattato di cinema meno impegnato, poco prima di passare alla tv, l’esperienza è stata comunque rilevante per quella sua natura di racconto popolare, di teatro filmato.
Residui di realtà, affioramenti emotivi, libere associazioni confluiscono oggi, in una chiave decisamente più introspettiva, nel suo lavoro. Il computer è un medium, quello dove si raccoglie la materia bruta: immagini catturate con la fotocamera del cellulare e da internet oppure riprodotte attraverso lo scanner.
In questa ricerca di frammentazione la rielaborazione digitale, tuttavia, viene supportata dalla tecnica tradizionale. L’opera finale pur inglobando vari procedimenti è stampata su carta emulsionata.
Nella composizione entra anche un altro elemento. Trasposte dall’ambito originario medico-scientifico, la radiografia e la TAC – strumenti fondamentali della diagnostica – trovano in questo contesto una nuova collocazione simbolica e artistica.
Non è solo un gusto stilistico, la contaminazione visiva si apre ad una lettura più profonda. Intanto una parte più interna dell’individuo – che sfugge all’occhio umano – si lascia scoprire, svelare dai raggi. Il disegno tracciato meticolosamente dai raggi X e dalla TAC trova in queste opere di Borelli un codice linguistico autonomo che si presta alla libera interpretazione di chi guarda.
Crani che non sono più crani, tibie che non sono più tibie… Un po’ come le macchie colorate delle tavole di Rorschach queste immagini assumono forme diverse, dettate dalla personalità di ciascun osservatore. Psicologia e percezione visiva, del resto, sono strettamente connesse, come ci insegna la Gestalt.
E più affiora l’inconscio, più l’anima si rasserena.